Un giardino di Memorie – Lettera aperta alla comunità

Pubblicato giorno 11 febbraio 2023 - In home page, VAJONT 60°

L’Associazione “Vajont – il futuro della Memoria”, nell’anno del 60° anniversario del Disastro, intende promuovere insieme alle nostre parrocchie una riflessione aperta, partendo dal rapporto delle nuove generazioni con il Vajont, sul valore della memoria e del legame con il passato nella quotidianità e per le nostre comunità.
Lo spunto di partenza viene da un testo di Michele Giacomel, membro del consiglio direttivo dell’associazione, che potrebbe assumere il valore di un Manifesto per il futuro dei nostri paesi…

Noi preti, don Augusto e don Rinaldo, siamo rimasti sorpresi dalla lucidità, dalla profondità e anche dall’attualità del suo scritto, la cui portata potrebbe essere applicata in generale a questo particolare passaggio generazionale. Lo diciamo perché ci sembra che il problema sollevato sia estendibile anche al contesto culturale che caratterizza questo nostro tempo. Come dice il Papa: “Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca”. In tal senso, il problema della memoria e dell’eredità, ossia della comunicazione fra i testimoni di un’epoca che si chiude e i pionieri di un’altra che si apre è veramente centrale nel passaggio così unico e così difficile che stiamo vivendo. Siamo convinti dell’urgenza di affrontare questo passaggio in una maniera nuova, cosciente di quello che, in esso, vi è in ballo.
Lo scritto di Giacomel appare come un inizio promettente; e tuttavia, per raggiungere il suo scopo, questo “vino nuovo” avrebbe forse bisogno di essere versato “in otri nuovi”. Ma v
ogliamo credere che tali “in otri nuovi” ci siano già, e che attendessero soltanto un momento come questo.
Invitiamo tutti coloro che sono sensibili al futuro dei nostri paesi a partecipare attivamente a questo spazio: reagendo, commentando, suggerendo… in modo tale che il 60° del Vajont diventi un evento che ci coinvolge tutti nella sfida di costruire una comunità nuova all’altezza della sfida di questa epoca.   

 

Mi sarebbe piaciuto intitolare questo mia riflessione A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Ma recentemente ho scoperto che la stessa idea era già venuta per una raccolta di articoli e riflessioni di Leonardo Sciascia, pubblicati negli anni Ottanta. Ovviamente l’opera dello scrittore e saggista siciliano non ha nulla a che vedere con i temi che intendo trattare, quindi ho preferito non scomodare Sciascia e appoggiarmi ad un’altra immagine, più evocativa, e anche in questo caso presa in prestito.

Eppure quel titolo così didascalico sarebbe stato adatto allo scopo: offrire alcuni spunti di riflessione per interrogarci sull’eredità del Vajont, sulla sua storia e sulle comunità su cui queste gravano. Mi chiedo infatti quale potrà essere il futuro della memoria del Vajont; quale eredità raccolgano le generazioni che non hanno vissuto direttamente quel trauma e che pure vivono territori e comunità segnate dal dolore. Mi chiedo come potremo mantenere in dialogo con la nostra quotidianità un evento (di dimensioni epocali e mondiali, oltre che straziante) di 60 anni fa. Mi chiedo come riusciremo a gestire il passaggio che trasforma la memoria personale di un evento in memoria storica e collettiva.

Quelle che seguono sono soprattutto osservazioni, riflessioni e domande aperte. Anzi, probabilmente questo intero testo è un appello, perché in coscienza non sento di avere risposte né lezioni da dare. O meglio: non credo che ci sia il bisogno di risposte individuali. Piuttosto credo nella necessità di costruire su questo tema un metodo di ragionamento collettivo e un percorso da affrontare insieme; per lasciarci coinvolgere, toccare e cambiare da questa eredità, per non lasciarla scivolare via nel tempo.

La narrazione del Vajont

Comincio da un aspetto, se volete, tecnico; ma che mi aiuta ad aprire la strada. Per anni ho seguito attivamente le iniziative legate alla Memoria del Vajont: prima come corrispondente locale per i quotidiani provinciali, poi come collaboratore della Fondazione Vajont e membro dell’Associazione “Vajont – il futuro della Memoria”. Quello che ho notato (sarà anche deformazione professionale) è che nel tempo si sono cristallizzate alcune formule di narrazione del Disastro che tendono a ripetersi; come se, una volta individuati un lessico efficace, il tono di voce adeguato e il giusto grado di intensità ci si trovi poi ad affidarci continuamente ad una specie di copione che si ripete rassicurante (quante volte abbiamo sentito dire o detto “per non dimenticare” o “una lezione che non deve essere dimenticata”? Cosa vogliono dire queste parole?).

Se è vero che il modo con cui viene raccontato un evento definisce il rapporto che si ha con esso, questa cristallizzazione nel tempo rischia di diventare un problema: è perfettamente comprensibile e giusto che i superstiti raccontino del proprio dramma con le parole che ritengono più opportune, e con la passione, il dolore e la lucidità di un’esperienza vissuta in prima persona. Ma la seconda generazione come può fare? Se penso alla statura che assumeva il maestro Gianni Olivier quando raccontava il Vajont ancora mi sento rabbrividire, e proprio per il rispetto che provo nei confronti delle vittime (defunti, superstiti e soccorritori) e per il fatto che quelle parole sono il frutto dell’elaborazione di un lutto personale non mi sono mai sentito a posto nell’usare gli stessi strumenti comunicativi. O meglio: li ho anche usati, ma lasciavano in bocca il sapore della recita.

Ecco il punto: temo che il modo di raccontare il Vajont che si è consolidato escluda chi è venuto dopo dalla possibilità di raccontarlo.

Matteo Melchiorre, giovane e brillante storico feltrino, in uno dei suoi primi lavori (Storia di alberi e della loro terra, Marsilio) aveva indicato la soglia degli ottant’anni come limite nella tradizione popolare oltre la quale di un evento non rimane più memoria diretta: i testimoni sono scomparsi, o erano troppo giovani all’epoca dei fatti, e non rimangono che voci, racconti di seconda mano dai contorni sfumati che con il passare del tempo sbiadiscono. L’anno che sta arrivando sarà quello del 60°. La cifra tonda fa sempre un certo effetto, ma in questo caso è particolarmente significativa perché viene percepita come una sorta di spartiacque generazionale: “È tempo di guardare al futuro, di affidare ai giovani la memoria del Vajont”. Facciamo costantemente riferimento al futuro nei nostri discorsi, ma così evitiamo di guardare al presente e considerare il fatto che “ora” è il tempo per cominciare a farci le domande che costruiranno quel futuro. Ma con quali parole le seconde generazioni potranno raccontare (senza recitare) una storia che non hanno vissuto? Questo modo cristallizzato di raccontare il Vajont sarà ancora efficace? E poi, quale sarà l’obiettivo di raccontare il Disastro? Anche su questo si misurerà l’efficacia del racconto.

Storia e memoria

Quando sento parlare delle lezioni della storia, e nello specifico delle lezioni che il Vajont ha dato (o non ha dato, a seconda della platea e dell’occasione) e che l’umanità dovrebbe imparare (e solitamente non lo fa) mi sento sempre a disagio. Sono quel genere di formule cristallizzate di cui sopra, che non vogliono dire quasi nulla ma sono belle da dire. E penso a uno dei passaggi più ripetuti dallo storico e divulgatore Alessandro Barbero nelle sue conferenze: la storia è una pessima insegnante; non ci sono lezioni da apprendere dalla storia.

Sarà anche banale, ma vorrei ricordare che ci sono due generi di passato: quello personale e quello degli altri. E quindi ci sono anche due generi di memoria: quella personale e quella storica, costruita sulle testimonianze degli altri. La fase che stiamo vivendo affianca persone che hanno il ricordo personale del Vajont ad altre che hanno (ne sono convinto) la necessità di costruirsene una memoria storica. Se i primi hanno fatto esperienza del fatto drammatico, i secondi devono compiere uno sforzo diverso, che difficilmente potranno fare da soli.

Ecco: credo che ci siano due modi di approcciarsi al passato. Non intendo uno preferibile all’altro, ci appartengono entrambi, ma che essendo profondamente diversi mettono in moto dinamiche molto lontane tra loro. Il primo è quello consolatorio e nostalgico: si guarda al passato come a qualcosa di irrimediabilmente lontano, proviamo piacere nel ripercorre i ricordi e l’animo si lascia coccolare dal meccanismo della rimembranza di leopardiana memoria. È una coccola che ci si concede, rigenerativa se spiritualmente elaborata, e che si attiva sia per le esperienze gioiose che per quelle dolorose. Ma porta con sé il rischio di generare una percezione della realtà ripiegata sul passato: si disinteressa dell’attualità, e valorizza nel presente solo quegli elementi che rinforzano e vivificano gli episodi su cui si focalizza. Il secondo modo è quello di guardare al passato come chiave di lettura per il presente. È un tentativo di apertura sul mondo, di comprensione e analisi. Un genere di memoria che rende i ricordi strumenti per agire nel presente in modo consapevole.

Queste due vie generano categorie di comprensione del mondo di pari dignità, ma a mio parere nel rapporto con il Disastro delle comunità superstiti si è dato maggiore risalto alla prima, mentre le seconde generazioni avrebbero bisogno anche della seconda. Perché il ricordo ripiegato sul passato, quando diventa racconto, perde tanto della sua capacità consolatoria: quei ricordi sono vivi e intensi e dolorosi e pieni perché sono personali, e non possono avere la stessa intensità nell’animo di chi non li ha vissuti. Costruire insieme un modo per riconoscere nel passato le radici del presente permetterebbe invece di mettere in relazione la memoria personale di chi c’era con la memoria storica che si deve costruire nelle nuove generazioni. La mia speranza è che si possa imparare dalla storia facendosi toccare dalla storia degli altri (e questo vale sia per le vecchie che per le nuove generazioni).

La seconda generazione e il giardino

Sono convinto che, per capire se la memoria abbia un futuro, prima si debba accettare il fatto che le seconde generazioni non possono avere lo stesso rapporto con il Vajont che hanno avuto i superstiti. Il Disastro non è una loro esperienza diretta; il rapporto con quel passato è costruito attraverso il racconto nostalgico e doloroso dei testimoni; e non è possibile replicare con sincerità la retorica dei superstiti. In che modo, allora, la seconda generazione può ritenere il Vajont una “sua” storia? Cos’è la seconda generazione rispetto al Vajont? Se non ha le categorie per poter raccontare il Vajont, come può sentirlo suo?

C’è la necessità di costruire un nuovo rapporto con la storia che passi attraverso “un’alleanza” tra i superstiti e la seconda generazione, perché riconoscano esigenze e fragilità gli uni degli altri: un cammino da affrontare insieme per “fare pace” con il nostro comune passato.

Nella sua prima omelia in occasione dell’anniversario del 2016, il Vescovo Marangoni aveva parlato del Cimitero delle Vittime come di un giardino di memorie (ecco da chi ho preso in prestito il titolo del documento). Quell’immagine allora usciva dall’abituale retorica e oggi ancora mi sembra la miglior metafora per descrivere quello di cui sento il bisogno: creare relazioni di cura e affetto tra di noi e con il passato. Come si farebbe per un giardino.

Certo, l’eredità di cui la seconda generazione dovrà farsi carico è tutt’altro che leggera. Ma è il nostro passato: o ci facciamo la pace e lo trasformiamo in un giardino o ne perderemo la memoria.

Vedo intorno una grande attenzione al fare, e pochissimo tempo lasciato all’ascoltarsi, all’immaginare insieme, al chiedersi cosa sia giusto e importante costruire. Come dicevo all’inizio, non ho risposte né soluzioni, ma la necessità di uscire allo scoperto e, magari, mettere in moto qualcosa, generare un confronto.

Mi sono rivolto a voi perché rispetto al tema vi ritengo sensibili (e se siete arrivati a leggere fino a qui lo siete davvero!), ovviamente coinvolti e conosco il vostro impegno. Se anche voi pensate che non sia giusto lasciar scivolare l’argomento, allora parliamone.