“Ogni anno sempre la stessa storia…”

Pubblicato giorno 9 marzo 2023 - In home page, VAJONT 60°

Ci sono arrivati diversi contributi come risposta all’invito dell’Associazione “Vajont – il futuro della Memoria” a non perdere la ricorrenza del 60° della tragedia per riflettere su questo difficile passaggio generazionale e sull’importanza di trovare un modo per rendere viva la nostra memoria.
Pubblichiamo la lettera di una mamma di Erto, la quale, alla reazione spontanea del figlio di fronte all’ennesima celebrazione del Vajont, riesce a trovare il modo giusto per trasmettere una memoria non facile da raccontare.

Ciao Michele,

la tua riflessione è profonda e in ogni riga si percepisce che non è il frutto di uno sfogo, ma di un pensiero maturato nel tempo, anche e soprattutto, direi, derivante dall’osservazione di come ci siamo comportati e ci stiamo tutt’ora comportando tutti noi.

Io faccio parte di quella generazione che il Vajont non l’ha vissuto in prima persona, ma sono arrivata subito dopo ed è come se ci fossi nata dentro. Tuttavia comprendo la difficoltà di parlare a chi non ha visto, perché io stessa ho faticato molto a capire e sono dovuta diventare adulta (molto adulta) e metterci molto impegno prima di riuscire veramente ad “entrare nella pelle” di chi c’era; forse anche perché per i primi 30 anni quasi nessuno a Erto ne parlava. Anche da bambina sapevo che si stava avvicinando il 9 ottobre perché mia mamma cominciava a piangere una settimana prima ed il dolore e la rabbia che aleggiavano nell’aria erano talmente intensi da poter essere toccati e noi, se pur bambini, non avevamo il diritto di dissociarci da tutto questo. Dovevamo partecipare a un lutto di cui non sapevamo niente, piangere dei nonni, degli zii mai conosciuti, perché in famiglia non se ne parlava mai. Era come una specie di tabù.

Sono convinta che tutto questo silenzio, il fatto che per 364 giorni all’anno bisognava sforzarsi di “dimenticare”, sia stato il motivo principale per cui, nelle nostre comunità, molte delle persone nate dopo il ‘63 hanno cercato di allontanarsi il più possibile da ciò che veniva percepito come una sofferenza di origine quasi ignota (passatemi il termine). Purtroppo chi c’era, come i miei genitori, non ha potuto trovare le parole per raccontare, perché le parole non c’erano e, quindi, noi non abbiamo potuto imparare quali siano i modi per parlare alle nuove generazioni, che sono anagraficamente ancora più lontane dai fatti. Ed ora, quel modo nuovo e diverso di raccontare, creando empatia e non fastidio in chi ascolta, lo dobbiamo trovare.

Condivido i tuoi timori: come possiamo farlo senza “recitare” una parte che abbiamo solo sentito raccontare? Come si può affrontare un argomento così delicato e complesso con i ragazzi, ad esempio, che sono abituati ad essere bombardati quotidianamente da decine di “informazioni flash”, di cui non sanno o non si curano di sapere se sono vere o false? Siamo in grado di usare il loro linguaggio? Perché credo sia questo quello che dovremo fare: non abbassare il livello qualitativo di ciò che diciamo, altrimenti tradiremmo noi stessi, ma usare formule nuove ed arrivare al cuore delle persone, come riescono a fare i superstiti, e una volta aperto il cuore, anche il cervello sarà pronto ad ascoltare. Il nostro compito, come associazione ma anche come persone, non è quello di raccontare i dati tecnici di quanto è alta la diga o quanto cemento è servito per costruirla, ma quello di far emergere i sentimenti delle persone, di quelle che stavano a monte della diga e quelle che stavano ai suoi piedi, tutte ingannate nello stesso modo.

Mio figlio è uno di quei quasi quarantenni che non ha mai voluto sentir parlare del Vajont.

“Ogni anno a scuola ci raccontavano sempre la stessa storia, sono stufo” mi diceva. Non ho insistito. Finché un giorno ho invitato lui, la sua compagna ed i miei nipoti a fare una passeggiata “in un bosco che non conoscete”. Siamo andati nella borgata Le Spesse, dove, nascoste alla vista di chi non conosce i luoghi, appaiono all’improvviso i resti di alcune case distrutte, ripuliti e curati da chi è rimasto. Non se lo aspettavano. Le fotografie di tutti quei bambini sono state uno shock e così ho cominciato a raccontare. Hanno ascoltato in silenzio, ma intuivo il tumulto dei loro pensieri. Lentamente sono arrivate le domande che, a distanza di tre anni, ancora non si sono fermate. Di lì a poco mio nipote, che all’epoca aveva 15 anni, ha proposto ai suoi insegnanti di raccontare alla sua classe quello che lui sapeva del Vajont “non quello che c’è scritto sui libri” e anche i suoi compagni hanno capito perché, con sua grande sorpresa, l’hanno applaudito.

Per questo sono convinta che sia importante parlare con il cuore, ma per poterlo fare dobbiamo immergerci nella vita delle borgate e delle famiglie, come se le avessimo conosciute di persona e trasmettere poi queste sensazioni a chi ascolta, che a sua volta le trasmetterà ad altri.

Sono anche convinta che i giovani non sono affatto così superficiali come si vuol far credere.

Certo ci viene richiesto uno sforzo in più rispetto a chi c’era davvero e ha i ricordi impressi nella mente.

Come dici tu Michele, non ci sarà un solo modo per affrontare la transizione e credo che ognuno di noi in cuor suo abbia già qualche volta pensato al futuro.

Forse finora non abbiamo avuto il coraggio di esternare questi pensieri e questa tua lettera può essere a mio avviso di grande aiuto.

Non è affatto facile pensare che un giorno i superstiti non saranno più con noi e toccherà a chi è arrivato dopo il compito di tramandare le loro testimonianze. Per questo non possiamo permetterci di perdere nemmeno una parola dei loro racconti.

Condivido il tuo invito a non lasciar scivolare l’argomento: parliamone.

Maria Giacoma