Mantenere viva la memoria, parliamone!

Pubblicato giorno 25 marzo 2023 - In home page, VAJONT 60°

Pubblichiamo oggi l’intervento di Cristina Da Rold, la quale, leggendo il testo di Michele Giacomel, sembra accorgersi della presenza di un “appello alla memoria” che, però, si scontra con una sorta di imperativo contrario, una sorta di “divieto alla memoria” vissuto dai testimoni della prima ora. Per loro si trattava di un “veto” legato alla necessità di riprendere la vita senza rimanere travolti da una memoria troppo dura da sopportare, per noi invece si tratta di un appello da tenere vivo, perché non possiamo dimenticare quello che è stato, e quello che è costato.

Cari e care tutti, caro Michele,
quando ho visto nella mia posta questa tua email dal titolo bellissimo – Un giardino di memorie – il pensiero è stato: ci siamo, è ora. Un po’ come essere chiamata all’appello a scuola: testa che si abbassa, braccio che mestamente si alza: presente!

Era il 9 ottobre del 2017 – la data è precisa perché mentre scrivo ho il libro qui davanti a me – quando al Centro Culturale veniva presentata la nuova edizione dell’Elenco delle vittime e dei familiari colpiti dal disastro. La mia copia ha ben tre linguette fra le pagine. Ricordo bene di aver avuto per la prima volta chiara e distinta la consapevolezza che un’epoca avrebbe iniziato di lì a poco a cambiare, e che la nostra generazione doveva iniziare a sentirsi chiamata in causa. Sul momento mi tirai mentalmente in disparte. Non ho mai partecipato a iniziative riguardanti il Vajont semplicemente perché mio nonno Norio (Enzo) Del Vesco, che l’onda la vide davanti a sé quella sera tornando a Longarone da Castellavazzo a piedi e che perse tutti, non volle mai essere coinvolto nella memoria del Disastro. Era un lutto personale, e solo a me, unica nipote – neanche ai figli – aveva iniziato a raccontare qualcosina. Non voleva alcuna pubblicità, non voleva turismo. L’unico momento di memoria che apprezzò davvero fu l’orazione civile di Marco Paolini.
Mentre pensavo queste cose ricordo di aver percorso con la mente tutte le persone che conosco che avrebbero potuto farsi carico – uso consapevolmente questa espressione, ma nel suo senso più alto e bello – del racconto del Vajont. Una a una le scartavo: lei abita lontano, lui anche, lei pure, e anche quest’altro… Mi sono guardata intorno, e in sala di ragazzi e ragazze della nostra età (intorno ai 30 anni) ce ne erano da contarli fra le dita di una mano. Questo è un grande tema del longaronese: il flusso di giovani che va via a studiare e che non torna. Lo dico senza alcuna forma implicita di giudizio, ma è un fatto. Quante cose si potrebbero fare se fossimo tutti qua nella stessa piazza! Al tempo stesso però mi capita di scoprire, per esempio tramite i social, di persone anche più giovani di noi che nutrono un grande amore per Longarone. È confortante; in effetti forse non serve essere maggioranza. Come disse De André, che tu ben conosci, in un suo famoso discorso: “le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi”.
A vent’anni mi sentivo in dovere di rispettare il volere di mio nonno. Ora che ho un’altra età, so che mi direbbe di fare ciò in cui io credo. Per me la memoria del Disastro è da sempre importantissima. Conservo io tutta la documentazione che mio nonno raccolse negli anni, e cerco di organizzarmi con il lavoro per non mancare mai da Longarone i giorni intorno al 9 ottobre. Le testimonianze degli altri superstiti, ogni scritto che è uscito sul Vajont per me sono stati intimamente preziosi, probabilmente per aiutarmi a ricostruire quel filo con il passato di una famiglia che è stata spazzata via.
Le parole mancavano a molti superstiti per raccontare l’immane tragedia, ha scritto giustamente Maria Giacoma rispondendo a questo tuo invito. “Purtroppo chi c’era, come i miei genitori, non ha potuto trovare le parole per raccontare, perché a le parole non c’erano e, quindi, noi non abbiamo potuto imparare quali siano i modi per parlare alle nuove generazioni.” Io sono fortemente convinta che le parole siano ciò che costruisce la realtà nei nostri occhi, facendola diventare… un’epica. Ho constatato molte volte che ciò che ci piace di un luogo, di una situazione, di una persona, è ciò che noi vediamo in essi, non tanto ciò che loro sono. Visti da vicino siamo tutti piuttosto miserabili, ma se riusciamo a immaginare che cosa possiamo essere, allora cambia tutto. Nomina nuda tenemus.
Per essere pratici, io sono persuasa che possiamo trovare tutti insieme, superstiti inclusi, il modo di raccontare il Disastro per farlo diventare un racconto corale, di comunità, eterno. Pensa ai grandi: alla famiglia Karamazov; a Guerra e Pace, alla Macondo di Cent’anni di solitudine. Restando nel nostro piccolo mondo pensa a Fenoglio, al Pasolini di Ragazzi di vita, a Silone, a Verga. Dico i primi nomi noti che mi vengono in mente. Pensa a Pavese.
Che cosa è la loro grandezza se non il tentativo, disperato, di fermare con parole eterne un mondo che fugge? Ecco, io penso possiamo trovare le parole per rendere eterni dei ricordi, anche personali per far sì che chi si trova in una situazione simile – ossia i nuovi “montanari che si difendono” mentre “la Sade spadroneggia” – possa trovare nel racconto del Disastro le proprie parole. Come quando, a distanza di settant’anni nei Ragazzi di vita delle borgate romane vediamo la sconfitta dei tanti ragazzi delle nostre nuovissime periferie. Sta a noi trovare le parole, rispettose, delicate ma non meno dirompenti, per raccontare in modo attuale che cosa è un sopruso.
Sentimento, scriveva bene Bruno Bratti nella sua risposta. Beh, di quello si tratta, sempre. Senza sentimento non siamo spinti a fare nulla, senza ricevere ricompensa. Io penso in questo senso che il racconto dei superstiti, di chi ha condiviso nel tempo, sia il punto di partenza. Fortunatamente oggi abbiamo a disposizione strumenti per registrare anche nuove testimonianze. L’elaborazione di un trauma continua per tutta la vita.
Aggiungo un ultimo aspetto, per me rilevante. Credo che oltre al prima e al durante, sarebbe bello iniziare a raccontare bene le dinamiche della “ricostruzione” di Longarone, dato che oramai è passato il tempo consono per uno sguardo di profondità. Di quella ci sono stati meno racconti, e noi con i primi ricordi risalenti all’inizio degli anni Novanta, Longarone l’abbiamo già vista “bella” che ricostruita.
Proprio l’anno scorso, in occasione di un contatto con la Rai di cui sai anche tu, per un documentario che doveva raccontare molto Longarone, ma che poi ha deciso di concentrarsi su altre aree della provincia, ero stata a lungo intervistata da una giornalista che di Longarone e di Vajont non sapeva nulla. La prima domanda fu: “È vero che per le generazioni nate nei decenni post Vajont è stata dura crescere?” Non è la prima volta che emerge questo concetto, e ogni volta che la sento, scalpito. Anche perché lei era convintissima di avere già la sua risposta. Gentilmente le ho raccontato che, posto che generalizzare è difficile perché “ogni famiglia infelice lo è a modo suo”, e posto che non posso parlare per i nati negli anni Sessanta, io ho trovato un paese che mi ha sempre dato tantissimo: scuola di danza, scuola di musica (a Longarone si suona un sacco!), ACR, Scout, cori, carnevali maestosi negli anni Novanta, Teatro, sport… personaggi iconici inclusi. Leggo peraltro sempre con tenerezza i commenti nostalgici alle foto del gruppo Facebook “Longarone e dintorni” che riguardano momenti passati, di feste… Qualcosa vorranno pur dire?
Ecco, questo è il mio sentire. Tante domande, poche risposte, ma si comincia così. Grazie Michele, davvero, per questa chiamata all’azione. Parliamone.

Cristina Da Rold